• I puntini sulle i…

    Ogni tanto è meglio ricordare certe cose, non si sa mai.

    Dalla Stampa in risposta alla polemica sul biologico:

    Quella del biologico in Italia è una «success story» che parte dallo yogurt. O meglio è da lì che la gente se ne accorge, che il termine le entra nella testa e comincia a cercarlo al supermercato. I vasetti in vetro della Fattoria Scaldasole, made in Brianza, con l’aura di sano&genuino conquistano i consumatori della Lombardia, poi sconfinano e attirano l’attenzione del mercato. Diventano un modello di business, di marketing e soprattutto di agricoltura vincente non convenzionale.

    «Quando ho iniziato, l’Italia era all’ultimo posto nel biologico in Europa; dopo Scaldasole sono partite 60 mila aziende e l’Italia è passata al primo posto». Marco Roveda ripercorre l’«epica» del bio con giusto orgoglio. Lui e la moglie sono i «fattori» della Scaldasole, quelli che hanno creduto nel biologico in tempi zero eco-sensibili e hanno fatto il botto. «La scommessa mi è valsa il premio imprenditore dell’anno per la qualità della vita». Era il ’97 e un anno dopo Roveda aveva già bisogno di un’altra sfida. Vendeva il suo gioiello a Plasmon e fondava Life Gate: «Piattaforma per il mondo eco-culturale». La notizia che viene da Londra non lo lascia indifferente. «Non sono i dati a infastidirmi, ma che si fa confusione. Nessuno ha mai detto che un pomodoro bio ha proprietà nutritive migliori o rende più intelligenti. Se scegli quello, non mangi pesticidi e residui chimici».

    Stessi anni, poco più in là nella campagna lombarda (rive del Ticino), Giulia Maria Crespi sperimentava, dopo un cancro, i benefici di una sana alimentazione. Scopriva l’agricoltura biodinamica e smosse mari e monti per trasformare i terreni di famiglia. Da convenzionali a biodinamici. Da lì veniva anche il latte per lo yogurt Scaldasole. Oggi quei terreni – Cascine Orsine – sono famosi per il riso. Se ne occupa il figlio Aldo Paravicini Crespi e ha qualcosa da dire agli inglesi. «Tecnicamente hanno ragione. Ma i parametri non sono significativi. Non sono le proprietà nutritive a fare la differenza, ma quelle organolettiche. Il sapore, il colore, la consistenza, il profumo. E la digeribilità e la natura degli acidi. Dovrebbero studiare gli effetti a lungo termine sulla salute».

    Perché il valore aggiunto del bio sul convenzionale sembra non tanto il bene che fa, ma il male che «non» fa. «I nostri prodotti offrono maggiori garanzie per quanto riguarda i livelli di residui di nitrati, pesticidi, additivi. E non inquinano». Benefici sociali, difficilmente quantificabili ma apprezzati dai consumatori che nell’epoca dei risi precotti fanno impennare le vendite del best-seller delle Cascine Orsine, il Rosa Marchetti: un’ora di cottura.

    Dalla produzione alla distribuzione, ancora Lombardia, altro imprenditore bio. Angelo Naj Oleari, un nome che fa subito Anni 80. Vive col «bio», ma anche con il cellulare, così lo disturbiamo in Brasile. E’ lì perché il presidente Lula lo ha presentato come uno dei pionieri del biologico. «Ho iniziato nel ’75, sono 35 anni – dice, e si arrabbia a sentire i dati da Londra -. L’agricoltura convenzionale è governativa, l’Inghilterra è in crisi e il bio va benissimo. Hanno appena aperto un negozio di 1000 metri a Kensington e c’è la fila».

    Naj aveva ereditato un’azienda di 1000 dipendenti, ma «ero botanico, artista e anarchico, le avevo tutte per non fare l’industriale». Si dedica alle piante e nel ’75 crea il Centro Botanico con Milly Moratti. Oggi hanno tre negozi a Milano e, quando il direttore della Banca Popolare lo vede entrare, si illumina. «Mi dice che ci sono due aziende che non si lamentano, una è la nostra, l’altra fa slot machines».

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