• Omicidio, colposo

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    Condannati a 3 anni e 6 mesi per omicidio colposo i 4 agenti che il 25 settembre del 2005 fermarono, non si sa ancora perchè, Federico Aldrovandi in via Ippodromo. Ci sono voluti quasi 4 anni, l’allontanamento di un Questore, il cambio di PM, l’intervento di un Sindaco, del Presidente della Camera e vari deputati della scorsa legislatura, ma soprattutto il coraggio di Patrizia e Lino. E con loro la tenacia dei parenti di Federico, degli amici e di tutti coloro che hanno manifestato in questi anni la propria solidarietà alla famiglia e la richiesta di verità e giustizia per la morte di Federico. Fondamentale poi, e va ricordato in questi giorni orribili, il coraggio di una migrante allora in attesa del permesso di soggiorno, Anne Marie Tsegueu unica residente in via Ippodromo a sentire il dovere civico di raccontare ciò che successe quella mattina.

    Di Verità su quanto accadde quel giorno ne stiamo ancora cercando, e la parola Giustizia forse non si accosta a questa sentenza. Che è pure una sentenza di primo grado, che sarà sicuramente appellata dagli imputati. Ma chè una sentenza, e vi assicuro che qui, fra le nebbie padane, in pochi pensavano che sarebbe arrivata.

    Fra le tante testimonianze mi preme riportare quella di un collega degli imputati, un poliziotto della Digos di Ferrara che oggi ha consegnato alla famiglia Aldrovandi una sua lettera, come riporta estense.com:

    L’ispettore Solito: ”Sono solo e certa gente è capace di tutto”

    Lettera di un poliziotto ad Aldro

    “Gente che è arrivata a fare quello che ha fatto è capace di tutto”. Sono le parole di un poliziotto. Un poliziotto che parla di altri poliziotti, suoi colleghi con i quali da quasi quattro anni non riesce ormai a convivere più. Sono le parole che Nicola Solito, ispettore della Digos in forza alla questura di Ferrara, ha scritto in una lettera indirizzata a Federico Aldrovandi.
    Una busta con tre fogli consegnati questa mattina – prima dell’inizio dell’udienza definitiva – a Stefano, il fratello di Federico Aldrovandi, prima di sapere come finirà il processo che vedeva imputati quattro agenti di polizia. Si ricorderà che fu proprio Solito – chiamato dai colleghi per sapere se conosceva il ragazzo deceduto (all’inizio si pensò potesse appartenere ai centri sociali) – a riconoscere il cadavere di Federico in via Ippodromo. E toccò a lui l’ingrato compito di avvisare la famiglia, diverse ore dopo, di quanto era accaduto.
    Da allora “non c’è notte e giorno che non ti penso – scrive l’ispettore -; ho sempre davanti agli occhi quella tremenda immagine del tuo corpo senza vita. Nonostante il lavoro che faccio, non ci si fa mai l’abitudine a certe scene e con te è stato devastante perché ti conoscevo”. Solito ricorda anche la scena straziante che fu costretto a vivere, proprio lui, amico da anni della famiglia: “Ho davanti agli occhi lo strazio di tuo padre che, inginocchiatosi davanti mi stringeva forte le gambe urlando: “Dimmi che non è vero Nicola… dimmi che è uno dei tuoi scherzi…”. Sarebbe stato uno scherzo troppo crudele. Tante volte quella mattina ho pregato Dio di essere ancora nel mio letto, che quello che stavo vivendo era un brutto sogno. Purtroppo era vero. Con i tuoi genitori abbiamo deciso di non vederci e frequentarci più per motivi di opportunità, perché non volevamo che qualcuno, nel vederci insieme, potesse pensare o credere chissà che cosa. È stata una decisione sofferta ma opportuna. Gli amici si vedono nel momento del bisogno e io non ho potuto stargli accanto”.
    La lettera continua con un rimprovero implicito a chi intervenne quella notte. “Il tuo, era e doveva essere il più semplice degli interventi – si legge – che una forza di polizia può affrontare e risolvere. Quella mattina potevi essere chiunque, il figlio di chiunque, la persona più onesta o disonesta di questo mondo. Quando ci si trova di fronte a una persona nelle condizioni in cui ti hanno descritto, la prima cosa da fare è chiamare un’autoambulanza con medico al seguito. Nel frattempo si prova a dialogare con chi ti sta di fronte per cercare di calmarlo, di tranquillizzarlo. Se poi è violento o diventa violento ci si allontana, ci si chiude in macchina chiedendo rinforzi. Una volta arrivato il medico, con questi si concorda su come intervenire. Di solito si immobilizza il soggetto e il medico pratica un’iniezione con del calmante. C’era solo questo da fare e nient’altro”.
    Quello che è invece accaduto “quella mattina e da quella mattina in poi è un incubo – continua Solito -. In tutto quel tempo ho dovuto fare i conti con me stesso e con tutto quello che mi circonda, da una parte l’uomo e dall’altra il poliziotto, perché io ero “l’amico” e per questo ho subito gratuitamente delle minacce, battute e commenti fuori luogo. Quante volte ho dovuto stringere i denti, fare finta di niente, fare finta di non aver sentito”.
    Solito fu chiamato anche in causa come testimone, nell’ipotesi – rivelatasi poi infondata – che potesse aiutare la ricostruzione dibattimentale. “Sono fatti, eventi che ti segnano – continua la lettera -, ti sconvolgono radicalmente la vita, ti sfiancano, specialmente dopo la mia deposizione, quando qualcuno ti manda a dire: “purtroppo l’onestà non paga mai!”, come se nella vita a un certo punto devi essere obbligato o forzato a fare delle scelte o a schierarti, perché non hanno ancora capito che non si tratta di andare contro il “sistema”, di fare il paladino della situazione”.
    Una situazione che ha “fiaccato” umore e sentimenti dell’ispettore, che confessa come “si tratta di essere uomini dalla testa ai piedi, perché io la mattina voglio guardarmi allo specchio e, la sera, quando vado a letto, devo e voglio dormire con la coscienza a posto. Son arrivato al punto di non avere più fiducia in nessuno, a non sapere più di chi fidarmi. Ho scelto di continuare a essere onesto e sincero come lo sono sempre stato, a dire spietatamente sempre quello che penso e assumendomi sempre tutte le mie responsabilità”.

    Assunzione di responsabilità non senza conseguenze, se è vero che “questo mi ha portato ad allontanare inconsciamente e volutamente le persone a cui voglio bene, le persone che amo, per paura che, quanto mi è accaduto e mi sta accadendo, che le mie scelte, possano di riflesso e in qualche modo arrecargli del danno, del male, che possano subire delle rivalse, delle ripicche. Gente che è arrivata a fare quello che ha fatto è capace di tutto”.

    Solito si è portato tutto questo dentro e ha deciso solo la mattina dell’ultima udienza di confessare in un foglio tutto questo: “questa mattina, per la “sentenza”, come quella maledetta mattina del 25 settembre, sono e mi sento solo e da solo ho deciso di essere al fianco di tuo padre Lino, di tua madre Patrizia, di tuo fratello Stefano. La sentenza, non mi interessa, qualunque essa sia. Da oggi in poi, mi interessa solo tornare a stare al fianco dei tuoi genitori e di Stefano, Perché l’amicizia, come l’amore e come altri e veri nobili sentimenti che non accettano condizioni, non possono e non verranno mai scalfiti da qualsiasi strategia, disgrazia, da qualsiasi evento”.

    “I tuoi genitori – conclude Solito – sono affamati di verità e giustizia e spero tanto che trovino delle risposte ai loro perché, che trovino un po’ di pace, di tranquillità, perché perdere un figlio è inumano, è contro-natura e come poliziotto ti chiedo perdono per tutto quello che ti hanno fatto. Niente e nessuno potrà riportarti in vita, mi auguro che quanto successo ci serva a migliorare ancora di più, a cambiare il mondo di tutti i giorni, specialmente le coscienze degli uomini che, qualunque cosa essi facciano o dicano, si comportino con umanità, umiltà, coscienza, dignità, lealtà, onestà, rispetto, onore, perché nessuno possa mai più pensare o possa permettersi di dire: “l’onestà non paga mai!”. Sinceramente non so come saranno per me i prossimi giorni, mi auguro e spero di trovare anch’io un po’ di pace, di serenità, di tranquillità, di ritrovare il mio “senso della vita””.

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